Il racconto della grande Battaglia dei Sessi, la partite che vide sfidarsi Bobby Riggs e Billie Jean King

Quando Billie Jean King sconfisse Bobby Riggs

Era il 1973 e allo Houston Astrodome, in Texas, da pochi minuti si era conclusa la partita più importante del tennis, quella che aveva visto da una lato l’ex numero 1, Bobby Riggs, e dall’altro Billie Jean King, seconda in classifica tra le tenniste. 

La partita che passò alla storia con il nome Battle of the sexes”, la battaglia dei sessi.

Perché in ballo non vi era solo l’onore dei due tennisti, ma la vittoria contro una società stereotipata, discriminatoria e ancora fortemente patriarcale. 

Una lotta Uomo contro Donna. 

 

Quando nel ’70 con otto altre tenniste, note come il gruppo delle Original 9, abbiamo iniziato il circuito femminile, per un dollaro di paga, siamo state coraggiose. C’era il rischio di fallire, di essere cancellate, di perdere tutto. Andavamo contro un sistema, voluto e mantenuto dagli uomini. Senza aperture. Dove una moglie per avere un libretto degli assegni doveva avere la garanzia del marito.
Billie Jean King

La partita progettata da Bobby Riggs che diventò Battaglia dei Sessi

 

C’era tensione tra gli spalti quel giorno, ma soprattutto preoccupazione. 

Lo spettacolare “Hunger Games”, ideato e progettato dallo stesso Riggs per sfidare le tre più grandi tenniste dell’epoca, aveva come prerogativa non solo quello di portarlo, ormai cinquantenne, sotto le luci della ribalta ma di sancire la superiorità del tennis maschile rispetto a quello femminile.

Riggs, infatti, era sicuro che l’evento – in tre partite e con tre forti avversarie – avrebbe avuto un impatto mediatico eccezionale, tanto da attirare di nuovo l’attenzione degli sponsor e creare rumors intorno alla sua immagine di “maschio dominante”. 

Tuttavia la sua vittoria sarebbe servita anche a tutto il sistema tennis per continuare a proporre un trattamento economico diverso dei giocatori in base al sesso

E non ultimo, persino a quella fetta di società che irrideva il Titolo IX approvato da Nixon, con cui si vietava la discriminazione di genere nelle scuole e nello sport. Una società conservatrice che intendeva continuare a relegare le donne in ruoli subalterni e, a parità di mansioni, a pagarle di meno, togliendole qualsiasi tipo di diritto, anche sulla propria persona.

 

Ho lottato per far approvare ‘Title IX’, in modo che anche le donne potessero avere accesso alle borse di studio sportive. Nel 1973 nelle università 50 mila uomini ne avevano diritto, ma solo 50 ragazze.
Billie Jean King

Il racconto della grande Battaglia dei Sessi, la partite che vide sfidarsi Bobby Riggs e Billie Jean King

Questa era la società degli anni Settanta seduta quel giorno tra il pubblico; ma c’era anche chi sperava di vedere la rovinosa sconfitta di Riggs, almeno in quella seconda partita.

Perché, infatti, la prima contro Margaret Court fu un massacro compiuto in soli 57 minuti, con due set, ribattezzato con nome di Mother’s Day Massacre. E la verità è che fu più di un massacro di un singolo, fu un passo indietro per tutte le donne:

Togliti, non puoi fare la foto del torneo con gli altri perché hai i pantaloncini e non la gonna, mi rimproverò il direttore del circolo tennis di Los Angeles. Nessuna di loro ha la barba, scrisse di noi Jim Murray, che era un premio Pulitzer. Jack Kramer ebbe la faccia tosta di sostenere che quando giocavano le donne, gli spettatori andavano in bagno. Karen Hantze Susman veniva sminuita con la citazione ‘la casalinga 22enne che vince Wimbledon’. Questi erano i commenti dell’epoca. L’associazione dei tennisti professionisti, da Ashe a Stolle, non ci voleva, eppure erano miei compagni. Ma non c’era niente da fare: gli uomini ci sbarravano la strada. Potevano, gli era permesso.

Billie Jean King

 

Tutto era ormai sulle spalle della ventinovenne Billie Jean King, che voleva vincere, che era determinata a vincere. E non solo perché Riggs era un maschilista con mania di protagonismo, ma perché rappresentava la “voce irritante” di quel pensiero dominante, di quel sistema e di quella società che voleva le donne «a letto e in cucina, in quest’ordine», come suggerì lui stesso a pochi giorni dallo scontro.

 

Una partita per le donne e i loro diritti


E lei non era solo una tennista, era una combattente. Aveva già vinto un Australian Open, cinque Wimbledon, un Roland Garros e tre U.S. Open, e sapeva che questa partita avrebbe avuto una rilevanza diversa. 

Era una lotta che aveva poco a che fare con il tennis e molto più con il rispetto e il riconoscimento delle donne e dei loro diritti. 

Billie Jean King fu infatti la portavoce di quella nuova generazione di sportive – le apripista – quelle che furono costrette a fare i conti con gli anni Sessanta. 

Le prime, le Original 9, che si scontrarono con una cultura maschilista, in cui una sportiva valeva 5 volte meno di un collega e dove vigeva il famoso “Shamateurism”, cioè un compenso così basso da non permettere alle giocatrici di iscriversi ai tornei.

Billie Jean King decise di ribellarsi a tutto questo e iniziò la sua protesta contro le istituzioni sportive per affermare uguali diritti e uguali premi in denaro sia nei tornei maschili che in quelli femminili. La strada intrapresa non era però così facile: nel 1972, dopo aver vinto gli U.S. Open, ricevette 15.000 $ meno del campione maschile Ilie Năstase. 

Per far sentire la sua voce dichiarò che, nel caso l’anno successivo la vincita non fosse stata uguale a quella maschile, non avrebbe giocato. Era proprio il 1973. 

Quell’anno divenne la quinta donna nella storia del tennis a vincere i titoli di ognuna delle quattro prove del Grande Slam e dello Slam nel doppio misto

E fu la prima giocatrice di tennis ad essere nominata Sports Illustrated Sportsman Of The Year.

 

20 settembre del 1973 allo Houston Astrodome: Bobby Riggs vs Billie Jean King

Il racconto della grande Battaglia dei Sessi, la partite che vide sfidarsi Bobby Riggs e Billie Jean King

 Ora abbiamo qualcosa da dimostrare

 

Il 20 settembre del 1973 allo Houston Astrodome erano presenti 30.492 spettatori e oltre 90 milioni erano collegati da 37 nazioni. E tutto intorno ruotava il circo mediatico organizzato da Riggs. Scommesse incluse. Perché Riggs, sicuro di vincere, mise in palio un assegno di trentacinquemila dollari puntando su se stesso. 

Probabilmente se questa faccenda non avesse avuto i contorni di una lotta tra generi, la stessa King non avrebbe partecipato alla pagliacciata di un campione ormai dimenticato, pronto a tutto pur di ritornare sotto le luci della ribalta. 

Ma il suo netto «Non abbiamo niente da guadagnarci» si trasformò in un «Ora abbiamo qualcosa da dimostrare», quando il 13 maggio Margaret Court perse la sua partita.

Non c’era più margine d’errore. La King allora si preparò, si allenò duramente e studiò non sottovalutando mai l’avversario. Aveva un unico obiettivo: batterlo.

Durante la partita costrinse Riggs a giocare un Serve & Volley per lui innaturale e soprattutto troppo dispendioso dal punto di vista energetico. E, dopo 5 interminabili set, vinse per lei e per tutte le donne.

 

Ho pensato che saremmo tornati indietro di 50 anni se non avessi vinto quella partita. Avrebbe rovinato il circuito femminile e fatto perdere l’autostima a tutte le donne

A partita conclusa, Riggs saltò la rete divisoria e le disse: «Ti avevo sottovalutata». 

 

Billie Jean King e Women’s Sports Foundation

Malgrado le chiedesse più volte la rivincita, Billie non accettò perché non doveva dimostrare più niente. Le sue battaglie per i diritti delle donne potevano continuare anche senza il magico carrozzone di Riggs. E così fece.

Supportò la nascita del primo torneo femminile a livello professionistico, fondò la rivista “Womensports” e avviò la Women’s Sports Foundation. Nel 1990 la rivista Life la nominò tra i “100 Most Important Americans Of The 20th Century”.

Ma non era finita. Dopo quel famoso match, intraprese una nuova battaglia: quella della omosessualità nello sport. Un tema ancora molto importante, che con passione Billie Jean King segue ancora oggi da vicino.

Nel 2013 è stata scelta come rappresentante della delegazione statunitense per i Giochi olimpici di Sochi nel 2014, assieme ad altri atleti omosessuali, come lei. È stato questo un segnale molto importante: un messaggio politico per la Russia e per tutti i Paesi che ancora escludono le persone omosessuali dalle attività agonistiche. 

Avrei vinto di più se mi fossi limitata a giocare, ma forse non avrei migliorato un po’ il mondo.