Alexander Grothendieck

Alexander Grothendieck, il matematico idealista

Figlio di genitori perseguitati, apolide perennemente inquieto, vivace studioso appassionato di problemi irrisolti, irraggiungibile pioniere della geometria algebrica, pacifista inflessibile, ecologista radicale, razionalista alla ricerca di una fede. Anticonformista.

Alexander Grothendieck – tra i più grandi matematici dell’età contemporanea – è stato tutto questo, ed è stato molto altro.

Nella sua insondabile, complessa e irripetibile esperienza Alexander Grothendieck è riuscito a superare i confini del comprensibile, sia a livello professionale che a livello personale, per poi sparire a 86 anni, nel 2014, dopo oltre vent’anni di autoisolamento.

Dentro e fuori la storia, al di là e al di sopra di ogni inquadramento, ha lasciato il segno cercando comunque, metodicamente e anche brutalmente, di cancellare ogni sua impronta. Senza eredi né eredità, di lui, oggi, resta solo il ricordo. Il ricordo di un’esperienza fuori dal comune.

Alexander Grothendieck, molto più di uno studioso

Edward Vladimirovich Frenkel, professore di matematica all’Università di Berkeley, in California, e membro dell’American Academy of Arts and Sciences, ha scritto efficacemente sul New York Times che raccontare Alexander Grothendieck concentrandosi solo sui suoi meriti accademici, e non anche sugli ideali che scelse di condividere, rischia di essere estremamente riduttivo.

Alexander Grothendieck fu infatti molto di più di un uomo brillante.

“To say he was the No. 1 mathematician of the second half of the 20th century cannot begin to do justice to him or his body of work. Let’s resist the temptation to assign a number to a man of numbers. There are deeper lessons to be learned from this extraordinary human being and his extraordinary life.”

Genio indiscusso della matematica, Alexander Grothendieck non credette mai che la fredda logica dei numeri potesse spiegare l’esistenza umana.

Il suo più grande insegnamento, forse – che lui volesse impartirlo oppure no – è quello di aver mostrato che la vita, splendida e drammatica, non è soltanto un’equazione, né può ridursi a uno schema precostituito.

Figlio dell’anarchico ebreo di origine russa Alexander ‘Sascha’ Schapiro e della rivoluzionaria socialista Johanna, detta ‘Hanka’, Grothendieck nacque a Berlino nel 1928.

Aveva solo cinque anni quando Adolf Hitler salì al potere nel 1933 e i genitori – lui fotografo, lei giornalista – decisero di allontanarsi dalla Germania alla volta della Francia, lasciando il figlio ad Amburgo in affidamento presso la famiglia del pastore luterano Wilhelm Heydorn.

Nel 1936 il padre partecipò alla guerra civile spagnola appoggiando i repubblicani contrapponendosi al generale Francisco Franco. E in quell’Europa sull’orlo del conflitto mondiale, per tre anni Alexander non vide i genitori.

Nell’ottobre del 1939, poi, il padre fu arrestato e, in seguito alla promulgazione delle leggi razziali in Francia, dopo la sconfitta subita nel 1940 per mano della Germania, deportato ad Auschwitz – il campo di concentramento dove trovò la morte due anni più tardi.

La madre Hanka e Alexander furono invece internati presso il campo di Rieucros, ma scamparono all’eccidio. Tuttavia, Hanka morì successivamente a causa di una tubercolosi contratta in prigionia e lasciò solo, terribilmente solo Alexander.

Per lui iniziò, allora, una nuova vita; una vita, dal punto di vista professionale, piena di successi.

I tentativi di trovare lavoro in Francia furono estremamente difficili a causa del suo status: apolide. Letteralmente, senza patria. Questo gli causò isolamento, emarginazione, problemi. Ma fece nascere in lui una diversa percezione della realtà politica e sociale che lo circondava.

Il mito della nazione non lo catturò mai. In un primo momento, così, mantenne il passaporto delle Nazioni Unite rilasciatogli in qualità di rifugiato di guerra. Nel frattempo, fece la cosa che più lo appassionava: studiare.

Come ha ricordato Jacopo De Tullio, docente di matematica presso l’Università Bocconi e collaboratore di ricerca presso il Centro PRISTEM, a partire dal 1959 Grothendieck divenne professore a Bures, nei pressi di Parigi, presso l’Institut des Hautes Ètudes Scientifiques (IHES), fondato soltanto un anno prima ma destinato a riscuotere grande prestigio.

I suoi lavori, in quel contesto, furono molto apprezzati: il matematico si concentrò sulla geometria algebrica, la teoria dei numeri, la topologia, la teoria delle categorie e l’analisi complessa.

Fin da subito, Alexander Grothendieck impressionò colleghi, amici, allievi. Negli anni Sessanta, così, le pubblicazioni raccolte negli Éléments de géométrie algébrique – rimasto incompiuto – e poi il Séminaire de géométrie algébrique du Bois Marie rivoluzionarono il settore.

Dietro lo studioso sempre più affermato, però, si celava anche un uomo diverso; più energetico e tenace. L’altro volto di Alexander Grothendieck: l’idealista. Il dissidente figlio di una vita tormentata che voleva che il mondo cambiasse.

Alexander Grothendieck, uno scandaloso pacifista

Alexander Grothendieck

 

Nel 1966, il Congresso Internazionale dei matematici a Mosca conferì a Grothendieck, che non aveva nemmeno 40 anni, la medaglia Fields (ufficialmente: International Medal for Outstanding Discoveries in Mathematics). Nientemeno, il Nobel dei matematici. Lui, tuttavia, rifiutò l’onorificenza e non ritirò il premio come segno di protesta.

Fu una plateale, scandalosa e dissacrante protesta contro la politica militare dell’Urss – allora impegnata nella guerra fredda, nel serratissimo confronto con gli Stati Uniti su scala mondiale.

La ragione di Grothendieck era una e una soltanto: il pacifismo. La convinzione, dopo una vita segnata dalla guerra, che alla violenza del mondo si dovesse opporre la non violenza dello spirito. All’istinto della forza il metodo della ragione. All’odio reciproco la comprensione dell’altro.

Fu in sintonia con i ragazzi e le ragazze del Sessantotto francese e un tenacissimo contestatore del conflitto in Vietnam, che gli Stati Uniti combatterono in ragione di un anticomunismo spesso più ideologico che pragmatico.

Nel 1970, Grothendieck – all’apice della carriera – si dimise dall’IHES quando scoprì che l’istituto nel quale insegnava e faceva ricerca riceveva finanziamenti anche da parte Ministero della Difesa francese.

Infine, e non per caso, accettò di essere “naturalizzato” come cittadino francese solo nel 1971; sicuro che nessuno avrebbe potuto chiamarlo a svolgere il servizio di leva.

Negli anni, nonostante il biasimo dei colleghi, si isolò sempre di più dalla comunità accademica – lavorando in isolamento – e si avvicinò all’impegno politico.

Fu particolarmente attento, poi, anche a un altro tema: quello della disuguaglianza sociale; disuguaglianza di mezzi, di occasioni, di opportunità. Una lacerazione nella società, anche Europa, che il dopoguerra non aveva ancora del tutto sanato.

Queste posizioni lo portarono alla contestazione radicale della struttura del sistema scolastico – e universitario – francese, che considerava elitario, distorsivo e non ancora democratico.

Quando nel 1977 Grothendieck ricevette la medaglia Émile Picard, assegnata ogni 6 anni a un matematico da parte dell’Institut de France (Académie des sciences), la prese, la portò a casa e la usò come schiaccianoci (uno schiaccianoci “molto efficace”, confidò a un amico).

Visse per anni nel villaggio di Olmet-et-Villecun, nella regione dell’Occitania, a 50 chilometri da Montpellier all’interno di una piccolo appartamento senza luce elettrica (preferiva utilizzare lampade a cherosene) in cui ospitava studenti, senza tetto, attivisti, sbandati.

Si spostò poi in varie realtà per diversi anni; discutendo, insegnando, provocando, criticando.

Infine, nel 1988, nello stesso anno del pensionamento, vinse anche il premio Crafoord dell’Accademia di Svezia – il massimo riconoscimento di un’intera carriera passata a capire i segreti dei numeri. E tuttavia, immancabilmente, lo rifiutò.

In una lettera aperta inviata ai giornali giudicò negativamente la comunità scientifica per essere chiusa, ottusa, piegata su stessa, non aperta all’innovazione e sempre alla ricerca di riconoscimenti senza alcun valore pratico. Scrisse:

“A queste condizioni accettare di partecipare al gioco dei premi e delle onorificenze significherebbe anche dare la mia approvazione a uno spirito e a una tendenza nel mondo scientifico che io considero come essere fondamentalmente malsana e per di più destinata a scomparire presto, essendo tale spirito e tendenza così rovinosi spiritualmente, intellettualmente e materialmente.”

Fuori dai giochi, fuori dal mondo

Nel tempo altri temi entrarono nel bagaglio culturale di Alexander Grothendieck: l’ambientalismo, la denuncia del consumismo più sfrenato, l’attacco all’indifferenza occidentale per gli squilibri strutturali in un mondo diviso tra società privilegiate e società condannate alla miseria materiale.

Diventato un eremita – amato e odiato al contempo – scelse infine di sottrarsi anche al ruolo che gli avevano riservato (il genio sregolato allergico al conformismo).

Nel 1991, Alexander Grothendieck scomparve nel nulla, si trasferì in una casa sui Pirenei francesi senza lasciare riferimenti ai colleghi e fece perdere le tracce di sé.

Nella sua ultima dichiarazione pubblica, nel 2010, affermò che tutti i materiali pubblicati dopo la sua scelta radicale – l’isolamento nella natura – erano da considerarsi illegittimi, e che quindi, senza discussione, non solo non dovevano essere più messi in circolazione ma andavano anche fatti sparire dalle biblioteche, dai centri culturali e, non in ultimo, da internet.

Alexander Grothendieck morì il 13 novembre 2014.

I suoi figli, entrando nel suo rifugio dopo molti anni, trovarono centinaia, migliaia di fogli scritti (rigorosamente a mano) in tre lingue diverse: francese, inglese e tedesco. Contenevano, con una grafia quasi illeggibile, osservazioni sulla matematica, la fisica, l’ambiente, l’astronomia, la religione.

Un tesoro sepolto dal tempo che, in parte recuperato e spedito all’Università di Montpellier, rappresenta l’eredità di una coscienza inquieta e indecifrabile. Una delle menti più brillanti del Novecento.

 

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