Arthur Szyk

Arthur Szyk, l’artista che sfidò il nazismo 

di Simone Cosimelli

Un artista non può non considerare il tempo in cui vive. Non può fuggire dalla realtà, né deve provare a farlo.

Questo Arthur Szyk lo sapeva. E lo capiva.

Ebreo difensore della cultura ebraica, disegnatore e illustratore di rara abilità, Arthur Szyk riuscì a sfidare il nazismo a colpi di matita, senza mai vacillare. E senza mai concedersi la leggerezza di lasciare indietro gli ultimi, quelli che il destino sembrava aver già condannato. 

All’inaudita violenza delle parole e delle azioni contrappose la precisione della tecnica e l’espressività dei segni. Alla forza del militarismo la potenza della creatività. Alla morte, l’arte. 

Quando negli anni ’30 del XX secolo – folli, oscuri e carichi di rabbia – nei piani di Adolf Hitler prese forma il più terribile dei propositi, la soluzione finale per eliminare tutti gli ebrei in Europa e dunque il genocidio organizzato di milioni di donne e milioni uomini, Szyk prese posizione. Una posizione forte, chiara, netta. Irreprensibile.

Come disse nel 1934, con tutta la risoluzione di cui era capace:

An artist, especially a Jewish artist, cannot remain neutral in these times. He cannot escape to still lifes, abstractions and experiments. Art that is purely cerebral is dead. Our life is involved in a terrible tragedy, and I am resolved to serve my people with all my art, with all my talent, with all my knowledge”.

Arthur Szyk, dentro e contro la storia

Nato nel 1894 a Łódź (città polacca allora occupata dall’impero russo), Arthur Szyk ebbe fin da subito la consapevolezza di doversi dedicare all’arte. Tuttavia, altri due punti fermi influenzarono la sua formazione: l‘attaccamento alla Polonia, terra martoriata da lunghi decenni di occupazioni straniere, e l’orgoglio di essere (e dirsi) ebreo, in un’Europa avvelenata dal crescente antisemitismo.

Studiando prima all’Académie Julian, a Parigi, e poi alla Jan Matejko Academy of Fine Arts, a Cracovia (allora all’interno dell’impero austriaco), Szyk entrò in contatto con culture e personaggi differenti e  nel 1913, visitò anche il Medio Oriente, per vedere coi propri occhi il progetto sionista nel suo divenire: lo sforzo organizzato di fondare un nuovo stato ebraico. 

L’età della giovinezza, certo, finì presto: con la Prima guerra mondiale la Polonia si ritrovò divisa tra interessi contrastanti (Austria e Germania da una parte, Russia dall’altra) e Szyk fu costretto, per le sue origini, ad arruolarsi nell’esercito dello Zar Nicola II. I giorni al fronte non durarono molto, però, perché rifiutò di combattere contro altri polacchi e si rese irreperibile – in un primo, concreto gesto di opposizione.

Il conflitto passò comunque sull’Europa, da est a ovest, come un tornado, ridefinì gli equilibri politici, infranse speranze e sconquassò la società dell’epoca. 

Sconvolto da una stagione di conflitti, Arthur Szyk si rifugiò nel lavoro. Dalla Francia al Marocco, fino agli Stati Uniti, in molti apprezzarono le sue opere; ricche di dettagli e colori e ricercatezze, pubblicate in numerosi libri ed esposte in mostre di successo. Ispirate all’arte medievale e rinascimentale e alle tradizioni bibliche ed ebraiche.

Poi tornò la paura, poi vennero gli anni ’30: l’ascesa di Hitler, le persecuzioni razziali, il rafforzamento delle dittature, l’attacco indiscriminato alla civiltà. L’inverno sull’Europa.

Arthur Szyk non lo accettò; e scelse di ribellarsi.

 

Arthur Szyk

 

Arthur Szyk: dittatura, dissenso e libertà

Dopo essersi spostato a Londra, Arthur Szyk si fece presto la fama di un inesauribile e instancabile professionista: determinato oppositore del regime nazista. 

Con irriverenti caricature del Führer e dei suoi gerarchi, con disegni costellati di allusioni e simboli contemporanei, così come con le splendide illustrazioni dell’Haggadah (la raccolta di interpretazioni rabbiniche sull’esodo degli israeliti e l’uscita dall’Egitto), testimoniò i timori per un destino che, di giorno in giorno, sembrava più nero.

Arrivò a rappresentare Hitler come un nuovo faraone, pronto a soggiogare gli ebrei e a schiacciarli sotto il peso della storia; ancora una volta.

Persuaso che la negazione pubblica e spudorata della libertà non fosse accettabile, né tanto meno negoziabile, non cercò di stupire il suo pubblico, ma di sensibilizzarlo. Di scuoterlo da un torpore troppo a lungo tollerato. Lo stesso Hitler, compiaciuto dei suoi propositi bellicosi e dell’inerzia degli altri leader europei, si mostrò insofferente nei confronti di Szyk.

Secondo alcuni giornali arrivò addirittura a mettere una taglia sulla sua testa, ripromettendosi di toglierlo di mezzo. 

Szyk ne era convinto: gli ebrei rischiavano di essere sacrificati sull’altare del nazionalismo e del mito regressivo del Blut und Boden (“Sangue e Terra”). La tragedia andava denunciata a tutti i costi. Dissentire, contro e in nome di chi all’orizzonte non scorgeva la tempesta, era un dovere. Una responsabilità individuale. Alla dittatura andava contrapposta la libertà. 

L’ennesimo dramma della Polonia nel settembre del 1939, con la spietata invasione nazista (a ovest) aggravata dall’intervento sovietico (a est), determinò, per l’Europa, l’inizio di un conflitto di portata inaudita. Con la moglie Julia e la figlia Alexandra, Arthur Szyk si diresse a New York, passando dal Canada, alla fine del 1940.

Non solo perché per gli ebrei la situazione era ormai insostenibile, con le armate della Wehrmacht pronte a marciare in ogni direzione, ma anche perché venne sollecitato dal governo britannico e dal governo polacco in esilio a Londra. Era infatti essenziale, come auspicava Winston Churchill, che contro il nazismo si battessero anche gli Stati Uniti. Era necessario spingere il Nuovo mondo a difendere il Vecchio continente. E l’arte di Szyk poteva essere utile. 

 

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Arthur Szyk

 

L’uomo che svegliò gli Stati Uniti

Al di là dell’Atlantico, all’inizio, trovò scetticismo: molti credevano che il nazismo fosse un problema europeo e pochi pensavano che potesse danneggiare anche gli States.

Solo il Presidente in carica, Franklin D. Roosevelt, mostrò una più ampia comprensione degli eventi in corso, cercando di superare l’isolazionismo americano e proiettando su scala internazionale le conseguenze della politica espansionistica delle forze dell’Asse (la Germania di Hitler, l’Italia di Mussolini, il Giappone di Hirohito).

Per Roosevelt, se la democrazia fosse caduta in Europa tutto il mondo sarebbe finito sull’orlo del baratro. Nonostante dubbi e perplessità, dunque, bisognava difenderla. 

Szyk appoggiò il Presidente. E lo fece anche per amore, e per rispetto, della scelta del figlio George, che non aveva seguito la famiglia, era rimasto in Europa e si era arruolato nel movimento clandestino del generale Charles de Gaulle, nella resistenza francese. Far capire agli statunitensi la gravità del pericolo, in tutti i modi e con ogni mezzo, e spronarli all’impegno (anche armato), divenne quindi il suo scopo.

Far conoscere la verità più orrenda, lo sterminio degli ebrei, un obbligo morale. 

Quando nel dicembre del 1941 l’attacco giapponese alla base navale di Pearl Harbor, direttamente sul suolo americano, confermò le paure di Roosevelt, Arthur Szyk non si tirò indietro.

Fino al 1945 i suoi lavori – molto spesso realizzati senza pretendere un compenso – vennero pubblicati su giornali, quotidiani e riviste (come il New York Post, il Chigago Sun, Time, Collier’s, Esquire) ed esposti in oltre 20 eventi dal forte significato politico e poi messi all’asta per raccogliere fondi utili alla causa ebraica.

Fornirono i contenuti per cartoline, poster, stampe e volantini, furono utilizzati per alcune campagne pubblicitarie (dalla Coca-Cola alla U.S Steal Corporation) e vennero anche usate dal Dipartimento di Guerra degli Stati Uniti.

 

Arthur Szyk

 

Arthur Szyk, al servizio della democrazia

Se gli americani si mossero, e in modo compatto, lo fecero anche perché i disegni e le illustrazioni di Arthur Szyk raccontarono la lucida follia di Hitler e dei suoi alleati meglio di un bollettino di guerra. Eleanor Roosevelt, moglie del Presidente e indimenticata attivista a favore dei diritti umani, definì Szyk “a one-man army”, mettendo in risalto la capacità di un solo uomo di incidere come un intero esercito.

Ecco perché la vittoria degli Alleati – del mondo libero – sancì la fama Szyk. La giustezza della sua intransigenza.

Eppure quegli anni terribili lo segnarono per sempre: perse la madre in un campo di sterminio, gli fu negato il piacere dell’addio con vecchi compagni e inseparabili amici e, pur consapevole di aver dato un contributo di valore, l’eco delle delle tremende vicende europee, da Auschwitz a Dachau, non lo abbandonò. In lui si creò un vuoto mai più riempito. 

L’occhio vigile alle vicende di Israele, dall’altra parte del mondo, e una vita tranquilla a New Canaan, in Connecticut, lo confortarono, senza scacciare, però, i demoni del passato.

A testimonianza del suo impegno inflessibile per la democrazia, un impegno né dogmatico né acritico, negli anni successivi alla guerra mise in luce le storture e le contraddizioni del sistema americano, prima fra tutte la piaga del razzismo. Sempre con la matita in mano.

Nel 1950 finì addirittura nel mirino della “Commissione per le attività antiamericane” perché sospettato di appartenere alle “sinistre antifasciste”, senza per questo scomporsi. Agli Stati Uniti, che tanto amava, non voltò mai le spalle, pur continuando – da polacco e da europeo – a rivendicare la sua autonomia artistica e intellettuale. La sua indipendenza.

Figlio della sua epoca, non sopravvisse a quella successiva: quella della Guerra fredda e della polarizzazione mondiale. Un infarto lo stroncò nel 1951. Ma nessuno, negli Stati Uniti e in Europa, dimenticò il nome di Arthur Szyk.

 

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